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L’inventario delle proprie cicatrici – L’inverno della vita raccontato in Diario d’inverno di Paul Auster

di Niccolò Altomare 

Scrivere di un argomento elogiandone l’esatto opposto è possibile. Risultato di quest’operazione sono opere come L’invenzione della solitudine e Diario d’inverno di Paul Auster, nelle quali pagine si annida un’oscura presenza, un leitmotiv, un costante monito dell’esistenza di questa eventualità chiamata morte, e che eppure possono essere lette ed interpretate come un elogio alla vita.

I tuoi piedi scalzi sul pavimento freddo mentre scendi dal letto e vai alla finestra. Hai sessantaquattro anni. Fuori l’aria è grigia, quasi bianca, il sole non si vede. Ti domandi: quante mattine restano? Una porta si è chiusa. Un’altra si è aperta. Sei entrato nell’inverno della tua vita (Auster, 2015: 184).

È così che Paul Auster conclude Diario d’inverno, opera autobiografica, un diario lungo meno di duecento pagine all’interno del quale racconta a se stesso, dandosi del tu, quella che è stata la sua vita. Compie questa impresa senza tentare di indorare la pillola, anche perché non ci sarebbe motivo di mentire o nascondere particolari. Descrizioni accurate ed emozioni forti sono solo due degli ingredienti che compongono questo capolavoro, che cattura il lettore dalla prima all’ultima pagina, accompagnandolo in un disordinato viaggio all’interno dei ricordi dell’ormai sessantaquattrenne scrittore americano, che sposa il paragone tanto caro a Orazio tra il gelo della stagione invernale e quello interiore di fronte al fluire del tempo: il cosiddetto inverno della vita. 

Spesso, in risposta all’imprevedibilità della propria esistenza, ci si ritrova a desiderare una vita tranquilla, priva di sorprese, imprevisti e stravolgimenti. Auster prende in prestito le parole di Pascal, affermando che tutta l’infelicità degli uomini deriva da una sola causa: il non saper restarsene tranquilli in una camera. Forse il segreto del successo di Diario d’inverno sta nel fatto che Paul Auster è un grande “giocatore della vita”, il quale ha sempre risposto a tono a ogni imprevisto e tiro mancino che la vita gli ha riservato. D’altronde, un uomo che sopporta la vita solo a patto di restarvi in superficie si accontenta di non offrire agli altri più che la superficie stessa, ed è consapevole di essersi spinto molto più a fondo. Fondo che ha toccato più volte, si è reinventato, ha viaggiato, cambiato indirizzo ventuno volte, fatto esperienze piacevoli e spiacevoli, rischiato la morte in più occasioni e visto la vita sparire dagli occhi dei suoi cari. 

Come lui stesso afferma a proposito della dipartita di sua madre, egli non è nuovo alla vista di cadaveri, ne aveva già visti diversi (Ibid.: 96). Basti pensare alla morte di un suo amico fulminato, alla dipartita del padre – con la conseguente scoperta dei suoi più proibiti segreti, ampiamente raccontati nel volume L’invenzione della solitudine – fino ad arrivare, appunto, all’improvvisa scomparsa della madre, una donna enigmatica per Auster, che egli definisce come la somma di tre donne distinte che non sembrano collegate l’una all’altra (Ibid.: 112), che lo lascia senza lacrime, senza singhiozzi di angoscia né dolore, ma solo con un vago senso di orrore che cresce dentro (Ibid.: 97).  

L’idea che Auster ha di questa eventualità chiamata morte può essere riassunta in questa frase: “Un giorno c’è la vita. Un uomo sano, neanche vecchio, senza trascorsi di malattie. Passa da un giorno all’altro pensando ai fatti suoi, sognando solo il tempo che ancora gli si prepara. Poi, d’improvviso, capita la morte, esala un leggero sospiro, si abbandona sulla sedia, ed è la morte. La sua subitaneità non lascia spazio al pensiero, non dà occasione allo spirito di cercare una parola che possa consolarlo, restiamo soli, col dato inoppugnabile della nostra mortalità. La morte dopo una lunga malattia possiamo accettarla con rassegnazione. Anche la morte accidentale si può attribuire al destino. Ma che un uomo muoia senza causa apparente, che muoia solamente perché è uomo, ci spinge così vicino all’invisibile confine tra la vita e la morte da farci domandare su che lato di esso ci troviamo. La vita si fa morte, ed è come se quella morte avesse posseduto questa vita da sempre. Morire senza preavviso. Come dire: la vita si interrompe. E può interrompersi in qualunque momento” (Auster, 1997: 3). L’invenzione della solitudine si apre così, con una violenta ondata di verità che non risparmia nessun lettore. Auster si ritiene fortunato ad aver vissuto fino all’età in cui può concedersi un inventario delle sue cicatrici mentre si fa la barba – a differenza di suo padre, che, pur avendolo superato anagraficamente, essendo venuto a mancare a sessantasei anni, era sicuro che avrebbe vissuto fino alla piena vecchiaia (Auster 2015: 6). Uno dei pensieri più ricorrenti durante le notti insonni dell’autore americano è proprio il non aver mai avuto fretta di diradare quella nebbia che è sempre pesata fra lui e suo padre (Ibid.: 25); motivo per cui, pur affermando con una certa fierezza di non avere il pallino dei “bei tempi andati” (Ibid.: 144), egli non nasconde di guardare con una certa malinconia a quei giorni in cui dormiva bene, spegneva la luce, chiudeva gli occhi e “arrivederci a domani”, cosa che ormai un uomo di sessantaquattro anni con un vissuto come il suo alle spalle, che tra gli altri pensieri ricorrenti annovera una gravidanza indesiderata con una sua fiamma terminata in un aborto, il non aver estinto un litigio durante il funerale di suo padre e un grave incidente d’auto che mise a repentaglio la vita di tutta la sua famiglia e che lo terrà lontano dal volante per il resto della sua vita, può soltanto rimpiangere (Ibid.: 29). 

Giunto alla conclusione del suo Diario d’inverno, Auster arriva alla consapevolezza che tutte le peripezie che gli sono capitate sono parte dell’essenza della cosiddetta vita normale, persino gli incidenti che portano a sfiorare la morte, come quello che avrebbe potuto mettere un punto alla sua, di vita, se solo la sua testa fosse caduta pochi centimetri più a sinistra in una determinata occasione (Ibid.: 173). Il tema della volatilità della vita gli sta particolarmente a cuore e questo è cristallino agli occhi di qualsiasi lettore. Tuttavia ci si potrebbe domandare se esiste dunque un modo in cui la vita andrebbe condotta per giungere nel suo inverno con la stessa consapevolezza che l’autore americano dimostra nelle pagine di queste due opere. Ebbene, Auster per questa occasione si affida alle parole di Joseph Joubert, filosofo francese vissuto tra il 1754 ed il 1828, il quale sostiene che, sebbene la fine della vita sia amara, si deve morire amabili (se si può). Arrivare a una certa età comporta conseguenze fisiche e mentali, ma anche modifiche della propria routine e del proprio comportamento nei confronti degli altri. L’invito di Auster vuole essere quello di restare amabili, se possibile, perché sebbene la propria vita terrena termini, essa continua a sussistere nella memoria dei propri cari, in quanto la memoria è quello spazio in cui le cose accadono la seconda volta (Auster, 1997: 81).


Lista delle fonti 

Auster, P. (1997) L’invenzione della solitudine. Torino: Einaudi, traduzione a cura di M. Bocchiola. 

Auster, P. (2015) Diario d’inverno. Torino: Einaudi, traduzione a cura di M. Bocchiola. 

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